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giovedì 30 agosto 2012

A trovar Pippone

Ricevo da Varzi Viva e volentieri segnalo:

Al chiar di luna... sulle orme di Pippone
Sabato 1 Settembre

Continuano le camminate di Varzi Viva e questa volta, approfittando delle serate tiepide e piacevoli di settembre, vogliamo invitarvi a una camminata notturna. 

Percorreremo insieme un sentiero che ha segnato la storia d'Italia... saremo sulle orme di Pippone, l’ultimo condannato a morte del Regno d'Italia.

Percorso ad anello: Varzi - Casa Bertella - Dego - Nivione - Varzi.

Ritrovo ore 20 davanti alla sede (Varzi, via di Dentro 1)
Rientro previsto 23.30.

In caso di maltempo l'escursione sara` rinviata a data da destinarsi.

I partecipanti sono pregati di portare: scarponcini adeguati, impermeabile, torcia e giubbotto catarifrangente

Informazioni: 0383.545061 - 334.3406003


Chi era Pippone? la mail ricevuta non lo racconta, ma un articolo di Roberto Lodigiani su La Provincia (per leggerlo dal giornale clicca QUA)...

VARZI. Quattro mura diroccate fra i boschi di Cà del Monte, sopra Cecima, nel cuore della Val Staffora. All’apparenza, una vecchia casa di campagna abbandonata da chissà quanto, come tante altre in cui non è infrequente imbattersi nelle alte colline dell’Oltrepo, spopolate dalla fuga verso la pianura. Ma quei ruderi nascondono un terribile segreto, la storia di un’intera famiglia sterminata per un pugno di denaro e di gioielli, e chi la conosce non può non provare un brivido nel passarvi accanto. Per raccontare che cosa accadde, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo fino al 1863. Esattamente a un giorno sul finire di marzo. Il primo personaggio a entrare in scena è Teresa Tamburelli. Teresa aveva 63 anni, era vedova, e viveva con il figlio Giuseppe, la nuora Teresa e il nipotino di sette od otto mesi nel cascinale di Cà del Monte. I Tamburelli erano considerati una famiglia benestante. Possedevano terreni e i soldi messi insieme con i risparmi di una vita di sacrifici. Quella mattina Teresa e un’amica si erano incamminate fino al mercato di Varzi. Poi, era già mezzogiorno inoltrato, avevano deciso di pranzare all’osteria Malaspina. Il locale era denso di fumo e degli acri odori della cucina. Ai tavoli sedevano mercanti, mezzadri e agricoltori venuti fino al capoluogo a trattare affari. Teresa era allegra, e ancora più ciarliera del solito. La donna si mise a vantare a voce alta con l’amica i beni di famiglia. Le disse che erano così ricchi da potersi permettere di riscattare il servizio militare dell’altro figlio maschio, pagando un volontario perché lo facesse al posto suo. Quelle confidenze sbandierate ai quattro venti non sfuggirono all’oste. Si chiamava Giuseppe Malaspina, ma per tutti era semplicemente Pippone. Un soprannome che evoca l’ingenuo e sempliciotto Pippo disneyano, oppure il bonario Peppone del Don Camillo di Guareschi. Ma di ingenuo e di bonario, Giuseppe Malaspina non aveva proprio nulla. Lo sguardo truce, una fama sinistra di malefatte e ruberie che lo accompagnava sin da quando aveva lasciato Casei, il paese di cui era originario, per Varzi. Molti sostenevano che si era trattato di una fuga, perché ormai aveva troppi conti in sospeso con la giustizia. Una giustizia che, mano a mano che la strada saliva verso la montagna, si faceva sempre più lontana ed assente. Da Voghera in su, era quasi terra di nessuno e - sostenevano i suoi detrattori - Pippone il birbante senza regi carabinieri fra i piedi si muoveva assai più a proprio agio. Ma, fino a quel momento, erano solo voci. Comunque, Teresa Tamburelli avrebbe dovuto essere più prudente. Tenere per sé, o almeno sussurrare a bassa voce, certi particolari sull’agiatezza della famiglia. La donna tornò pacifica e tranquilla al suo casolare, ignara della sorte tragica a cui aveva condannato se stessa e la sua famiglia. A scoprire la strage, all’alba del 28 marzo 1863, fu Domenico Bertella, un bracciante di Caposelva, frazione di Cella di Varzi. Passando davanti al cascinale dei Tamburelli, notò che l’uscio era socchiuso, mentre dall‘interno proveniva il pianto disperato di un lattante. Provò ad entrare, ma qualcosa bloccava la porta. Con orrore, l’uomo scoprì che si trattava del cadavere di Giuseppe Tamburelli; accanto al suo, quello della moglie Teresa; poco più distante, il corpo della madre. L’assassino - o gli assassini - li aveva ammazzati a colpi d’ascia, con una ferocia che lasciò sbigottiti gli stessi inquirenti, saliti fino a Cà del Monte per le indagini. Toccò al giudice del mandamento di San Sebastiano Curone, l’avvocato Ferlosio, fare i primi accertamenti sul triplice delitto. Per una manciata di metri, la casa dei Tamburelli si trovava già in provincia di Alessandria. Quindi Ferlosio passò le consegne al giudice istruttore Rosari e al procuratore del re di Tortona, Forni. La voce pubblica indirizzò subito i sospetti su Pippone, che venne arrestato insieme al figlio il 15 aprile 1863. Nel corso dell’istruttoria, emerse il passato torbido dell’oste di Varzi, fatti e misfatti che lo avevano accompagnato da Casei, a Castelnuovo, a Gremiasco, sottolineando la sua vocazione al crimine. Rosari e Forni riunirono prove schiaccianti contro Malaspina ed il figlio Angelo. I due non avevano alibi per l’arco delle quattro ore, fra la mezzanotte del 27 e le 4 del mattino del 28, in cui si presumeva fosse stata commessa la strage; inoltre, c’era chi li aveva visti a Cà del Monte, prima e dopo il triplice omicidio, persino abbandonare lungo la strada una borsa contenente i gioielli e il denaro delle vittime; infine, c’era l’indizio rappresentato dagli indumenti dei due sospettati che erano stati fatti sparire, forse perché macchiati di sangue. Certo, nel 1863 non esisteva l’esame del Dna, ed erano sconosciuti molti altri metodi di investigazione scientifica, ma non ci voleva Sherlock Holmes per convincere una giuria che Giuseppe ed Angelo Malaspina erano colpevoli. Il verdetto venne pronunciato il 5 marzo 1864 dalla Corte d’Assise d’Alessandria. “Pippone” fu condannato a morte tramite impiccagione, il figlio Angelo ai lavori forzati a vita. La sentenza venne eseguita ad Alessandria. L’oste varzese fu l’ultimo condannato a morte del Regno d’Italia a salire sul patibolo.

Sulla vicenda anche il Libro "L'ultima trista impresa di Pippone di Varzi" clicca QUA


1 commento:

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