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domenica 8 novembre 2009

Il valore della memoria: San Martino

E' importante conservare la memoria delle proprie tradizioni, del proprio passato. Non è ottuso desiderio di conservatorismo, ma volontà di avere conoscenza di quello che eravamo e che erano i nostri padri per poter, attraverso essa, aver maggiore consapevolezza dell'oggi. Iniziano a fiorire iniziative di istituzioni pubbliche atte a conservare la memoria, le tradizioni: non per dividere, ma per arricchire ognuno delle memorie dell'altro; non per creare steccati, ma per gettari ponti fra culture diverse.
Molte tradizioni si sono già sbiadite e spesso non sappiamo neppure da cosa nascano alcune festività che oggi si conservano: in un certo senso tutto rischia di entrare nel tritacarne della omologazione e si perde così la sostanza delle cose.
In un bell'articolo su La Provincia di oggi Giorgio Boatti ci ricorda il significato della festività di San Martino.
Forse le persone più anziane sapranno integrare con ricordi e testimonianze queste belle righe.

Far San Martino oggi, vita vera di GIORGIO BOATTI

Delle tante date e festività, radicate nelle tradizioni di cui apparentemente ci siamo liberati, c’è anche quella di San Martino che ricorre questa settimana, l’11 novembre.
Una ricorrenza che ci siamo buttati decisamente dietro le spalle. Tanto che buona parte di chi vive qui, in questa provincia - sia nei paesi sia nelle località più grandi - non solo non usa più, ma non saprebbe neppure dare senso all’espressione, un tempo assai diffusa, di «fare San Martino». Un modo di dire profondamente legato alla realtà contadina lombarda.
«Far San Martino» era l’equivalente di un tracollone esistenziale. Rappresentava un duro girare di pagina nelle vite degli individui e delle famiglie visto che univa all’azione del traslocare, del cambiare casa, quella del cambiare posto di lavoro. O di perderlo. Proprio alla data dell’11 novembre, in cui si rinnovavano tradizionalmente i contratti agricoli, i lavoranti - se avevano cambiato o perso il posto di dipendenti delle grandi proprietà - «facevano San Martino». E visto che la casa in cascina, dove vivevano con le loro famiglie, costituiva parte del corrispettivo del loro lavoro, in questo giorno, chi aveva perso, o cambiato lavoro, doveva lasciare anche l’abitazione. Faceva trasloco, appunto. E sulle strade polverose i convogli di carri con le masserizie si incrociavano lungo percorsi densi di timori, di insicurezze, di rimpianti che parlavano agli occhi di tutti.
Nel nostro presente di questi convogli di gente alle prese con le due emergenze sociali più diffuse di questi anni - la casa e il lavoro - ne transitano ogni giorno, seppure sotto altra forma, un’infinità. E tuttavia, chiusi come ormai siamo tutti nel nostro individuale «particulare», abbiano difficoltà a intravedere, a dar loro nome, a queste situazioni che non costituiscono più le emergenze di pochi ma, piuttosto, la realtà in cui prima o poi, nelle più diverse forme ed eventualità, ci si scontra quasi tutti.
Ad esempio stanno facendo un San Martino particolarmente complicato, alle prese con una lingua che non è la loro e norme che spesso non conoscono, tutte quelle vite che alla mattina si affollano nel salone della Questura di Pavia per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno. Quel tesserino plastificato contiene in sè tutti gli interrogativi, e i drammi, che altri, in tempi che ci siamo apparentemente buttati alle spalle, hanno già vissuto seppure in forme diverse qua da noi.
E lo stesso accade per i molti bambini che anche nelle scuole di questa nostra provincia varcano - tra sguardi curiosi - la soglia di un’aula dove si parla una lingua nuova, dove i propri compagni almeno all’inizio non sanno capire cosa stai comunicando. E dove, bisogna dirlo, gli insegnanti fanno un meraviglioso e quotidiano lavoro - ignorato dai più - di costruzione di nuovi cittadini di un’Italia che cambia ben più rapidamente di quanto spesso siamo consapevoli.
Fanno San Martino - anche se spesso non ce ne accorgiamo, soprattutto se «garantiti» - i lavoratori «flessibili» - lasciati a casa e costretti a ricominciare all’infinito, dal principio, il loro percorso ad ostacoli.
Fanno San Martino gli anziani e i malati non autosufficienti che alla fine devono lasciare casa - ciò che è stato il loro nido e, magari, il loro tormento di solitudine - per approdare a quelle «residenze» e case di riposo che stanno sorgendo in ogni angolo della provincia. Luoghi dove spesso, con lo sforzo infinito e l’impegno di tanti addetti, si cerca di ricreare qualcosa che conservi una cordialità famigliare.
In tempi in cui i simboli, soprattutto quelli che vengono da radicate e profonde tradizioni, paiono dare fastidio a molti, l’immagine di San Martino, il cavaliere che prende la spada e davanti al gelo della bufera taglia in due il suo mantello per scaldare un pellegrino che lo affianca sulla strada, dice più di tante parole. Spiega, più di tante trattazioni, cosa dovrebbe essere quel Welfare che, almeno qui da noi, qualcuno vorrebbe smantellare ancora prima che sia stato costruito con modalità paragonabili a quello delle nazioni più civili. Ma, ancora di più, il «Fare San Martino» - la ricorrenza e le immagini che sono collegate - spiega la vita vera che ci circonda e riguarda tutti, perchè, prima o poi, viene a strattonarci. Tirandoci per quel lembo di mantello che copre le nostre fragili sicurezze.

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