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martedì 4 ottobre 2011

Fare a meno dei certificati


Riporto un articolo di Luigi Oliveri apparso su La Voce:

FARE A MENO DEI CERTIFICATI di Luigi Oliveri 04.10.2011

La necessità di esibire certificati di varia natura in diverse situazioni rappresenta una perdita di tempo e di energie per amministrazioni, aziende e famiglie. La soluzione non è eliminare le certificazioni, ma modificare il sistema col quale si acquisiscono le informazioni. Già da undici anni il Dpr 445 prevede per le pubbliche amministrazioni il cosiddetto accesso diretto alle banche dati. Per verificare la veridicità delle autocertificazioni dei cittadini senza richiedere alcun certificato a nessuno. Perché non si mette in pratica quella norma?

Le certificazioni di varia natura costituiscono un ostacolo chiaro alla funzione amministrativa e un onere per famiglie e imprese.
Il ministro Brunetta ha probabilmente esposto male la soluzione corretta a un problema reale. Non si devono eliminare le certificazioni antimafia o riguardanti la regolarità contributiva in sé e per sé, ma occorre certamente modificare il modo di acquisirle.

IL DURC, QUANDO SERVE E QUANTO VALE

Prendiamo il Durc, il documento unico di regolarità contributiva. Va richiesto nelle seguenti circostanze:

a) per la verifica della dichiarazione sostitutiva relativa al possesso dei requisiti di “moralità”, tra i quali la regolarità contributiva; le imprese autocertificano la loro regolarità in sede di gara, ma ai fini dell’aggiudicazione definitiva, occorre acquisire il Durc;
b) per la stipula del contratto, successiva all’aggiudicazione;
c) per il pagamento degli stati di avanzamento lavori o delle prestazioni relative a servizi e forniture, nel corso dell’operatività del contratto;
d) per il certificato di collaudo, per il certificato di regolare esecuzione, per la verifica di conformità e il pagamento del saldo finale;
e) qualora tra la stipulazione del contratto e il primo stato di avanzamento dei lavori o il primo accertamento delle prestazioni effettuate relative a forniture e servizi, ovvero tra due successivi stati di avanzamento dei lavori o accertamenti delle prestazioni effettuate relative a forniture e servizi, intercorra un periodo superiore a centottanta giorni.

Dunque, occorre chiedere il Durc in continuazione. Nulla di male. Se non fosse che appunto, il documento va “chiesto” e che per ottenerlo occorrono circa trenta giorni. E un’amministrazione appaltante prima di poter autorizzare il pagamento della prestazione ricevuta dall’appaltatore deve aspettare che Inps, Inail, Cassa edile e gli enti che aggiornano i dati relativi al Durc, ricevuta la richiesta, rispondano, per poter poi andare oltre.

PROBLEMI DI ACCESSO

Non si capisce perché le medesime amministrazioni appaltanti per effettuare un’altra verifica, cioè quella dell’assenza di procedure in atto per irregolare versamento delle imposte e delle tasse nei casi di pagamenti superiori ai 10mila euro, possano accedere direttamente alle informazioni di Equitalia, per il tramite del portale della Consip, mentre per un’operazione in tutto analoga, la verifica della posizione contributiva, per via telematica possano solo fare la richiesta del Durc. Ma non possano accedere direttamente alle informazioni registrate nel sistema.
È evidente a chiunque la perdita di tempo e di risorse. Senza dimenticare che per anni e anni si è discusso se la validità Durc fosse di un mese o di tre mesi. Solo da poco è stata presa una posizione definitiva, indicando la validità trimestrale. Il che facilita il reperimento del certificato, se gli adempimenti sono contenuti entro i tre mesi dalla sua emissione. Ma, si badi, la normativa vigente pretende comunque un Durc diverso a seconda se si compia una o l’altra delle attività indicate nell’elenco. Pertanto, un’amministrazione potrebbe già essere in possesso di un Durc ancora valido, vedendosi comunque costretta a chiederne un altro, da destinare a un utilizzo diverso da quello del quale risulti in possesso.
Non è da eliminare il Durc, ma il sistema col quale si acquisiscono le informazioni. Lo stesso vale per la certificazione antimafia e per qualsiasi altro dato in possesso delle pubbliche amministrazioni.
È da undici anni che il Dpr 445/2000 prevede per gli accertamenti istruttori delle pubbliche amministrazioni il cosiddetto “accesso diretto” alle banche dati. In parole povere, i cittadini possono autocertificare il possesso di tutti i requisiti necessari a intraprendere un’attività soggetta a un’autorizzazione, un contratto o anche un semplice controllo ex post; le amministrazioni competenti non dovrebbero chiedere alcun certificato a nessuno, ma dovrebbero poter consultare le banche dati delle altre amministrazioni per verificare la veridicità delle autocertificazioni.
Da anni, il problema si pone anche per l’esenzione dal ticket sanitario. Le Asl non riescono ad accedere automaticamente alle banche dei disoccupati, gestite in vario modo dalle Regioni, sicché i Centri per l’impiego delle province sono subissati di richieste di certificati di disoccupazione, dei quali si potrebbe fare certamente a meno.
Le banche dati già disponibili, utili per controlli e verifiche, sono molteplici: tra esse appunto quelle detenute dalle prefetture per l’antimafia, il casellario giudiziale, il casellario informatico dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (che certifica il possesso dei requisiti per accedere agli appalti), l’anagrafe tributaria, il registro delle imprese, le banche dati dei percettori di ammortizzatori sociali, le già ricordate banche dati dei disoccupati. Una riserva enorme di informazioni l’accesso alle quali è ancora troppo spesso condizionato a sistemi non adeguati alle risorse offerte oggi dalla rete telematica.

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